Ieri mattina sono giunti nel capoluogo siciliano i 9 arrestati a Milano - Erano ammanettati e ciascuno scortato da 4 agenti in borghese - Per precauzione la polizia ha fatto sgomberare la stazione - Gli arresti sono avvenuti nella massima segretezza, anche il procuratore non era stato avvertito - A Palermo si dice che carabinieri e polizia abbiano inteso rivolgere alla magistratura una specie di « mozione di sfiducia ».
Carabinieri e polizia cercano altri mafiosi riusciti in extremis a sfuggire alla cattura e che sono ora latitanti. L'operazione anti-boss, dopo l'arresto delle trentadue persone, accusate di associazione per delinquere, è tutt'altro che conclusa; anche se gli inquirenti non svelano i loro propositi, si ha la sensazione che altri arresti siano imminenti non soltanto a Palermo, ma in altre città del Paese. Il trentaduesimo « boss » è stato arrestato stamane a Palermo; si chiama Luciano Zappulla e ha 35 anni. Si tratta d'una grossa operazione che vede mobilitati centinaia di inquirenti, dal colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa comandante la Legione dei carabinieri e dal questore dottor Ferdinando Li Donni ai semplici funzionari e non graduati. Fra stanotte e questa mattina sono giunti a Palermo quanti erano stati catturati a Milano, a Roma o fuori della Sicilia. Sono stati condotti qui in treno, ammanettati e ognuno scortato da quattro uomini, due carabinieri e due agenti di Pubblica Sicurezza per lo più in borghese, gli stessi che, in gran segreto, erano stati inviati dalla Legione e dalla Questura in « missione ». Soltanto a Milano per esempio, ieri notte hanno agito quaranta agenti palermitani, trenta dei quali carabinieri e dieci del nucleo Criminalpol o della « Mobile ». L'arrivo dei presunti mafiosi alla stazione centrale di Palermo ha destato la curiosità generale. Una folla di centinaia di persone si è assiepata davanti all'ingresso principale verso mezzogiorno, quando è giunto il treno proveniente da Milano con a bordo i nove arrestati nel capoluogo lombardo. Per precauzione le forze dell'ordine hanno fatto sgomberare l'interno della stazione e i presunti mafiosi, incatenati, sono stati fatti scendere uno per volta dal vagone di seconda classe. A distanza di due minuti l'uno dall'altro, sono stati fatti salire su automobili dei carabinieri o della Pubblica Sicurezza che scortate da motociclisti della « Stradale » si sono velocemente dirette a sirene spiegate verso la sede del comando del gruppo carabinieri. La caserma « Carini » dista poco meno di cinquanta metri dal bar Del Massimo il cui gestore, Vincenzo Guercio, di 35 anni, sposato e padre di tre figli, è misteriosamente scomparso da sabato scorso, venendo quasi di sicuro ucciso.
Guardati a vista
Riferendosi al Guercio, in una nota congiunta diffusa dalla . legione carabinieri e dalla questura si dice che « si tratta dell'ultimo delitto commesso dalla mafia in ordine di tempo » e che « lo scomparsa del commerciante rientra nella sintomatologia avvertita con disagio dalla opinione pubblica ». Gli altri « boss » erano già stati condotti a Palermo nella notte o al mattino presto. Da Roma erano stati accompagnati Natale Rimi e i due Giuseppe Corso, padre e figlio parenti di Frank Coppola e amici di Luciano Liggio, arrestati a Pomezia. Sbrigate le formalità imposte dalla legge (identificazione degli arrestati, sosta nella stanza della « segnaletica » per la fotografia di rito, ecc.) i trentadue sono stati trasferiti nel carcere dell'Ucciardone, in celle di sicurezza. In prigione i nuovi arrivati non potranno comunicare tra di loro né con gli altri reclusi, essendo stati colpiti da « divieto d'incontro ». Potranno prendere « l'aria » separatamente negli appositi cortiletti interni dove andranno uno per volta e sempre guardati a vista dagli agenti di custodia. Che una quindicina dei « boss » siano riusciti a fuggire, toglie un po' di merito all'operazione, condotta simultaneamente nelle vane località dove si trovavano gli accusati. Tuttavia bisogna riconoscere che l'arresto, in poche ore, di trentadue persone è una delle più riuscite azioni di polizia degli ultimi anni decisive nella lotta alla mafia. A questo proposito è il caso di sottolineare due particolari. Il primo: gli arresti sono stati eseguiti, anche fuori Palermo, prevalentemente da « personale » della legione o della questura palermitane. Ciò significa che l'operazione dev'essere stata studiata nei minimi dettagli e attuata con ottima scelta di tempo. Carabinieri e polizia infatti si sono serviti della collaborazione dei loro colleghi di Milano, Roma, Napoli, Catania e Ragusa soltanto per farsi indicare le strade e le abitazioni dove già sapevano che avrebbero trovato i presunti mafiosi che sono stati colti quasi tutti di sorpresa nel cuore della notte. Secondo particolare: l'assoluta segretezza con cui l'operazione antimafia è stata pre; disposta. Neanche la magistratura ne era a conoscenza ed è stato smentito che gli arresti siano stati compiuti su ordine dì cattura della procura della Repubblica di Palermo, che invece non era stata avvertita. Perché le forze di polizia si siano decise ad avviare una così grossa iniziativa senza concordarla con i magistrati palermitani non è stato ufficialmente chiarito. Carabinieri e polizia hanno detto soltanto che il reato dì associazione per delinquere, contestato agli arrestati, ricade nella sfera dei « reati permanenti » per i quali chi arresta non è tenuto a farlo su ordine di cattura, mentre è la magistratura ad essere obbligata a tale provvedimento.
«L'anticamera»
Qualcuno oggi a Palermo afferma che carabinieri e polizia, tenendo all'oscuro la procura della Repubblica, abbiano inteso rivolgerle una specie di « mozione di sfiducia ». Probabilmente, è eccessivo, ma è innegabile che sia stata attuata, stavolta, una prassi perfettamente legittima, ma raramente seguita a Palermo, specie quando a capo della stessa procura era Pietro Scaglione ( il magistrato assassinato con 11 suo autista il mattino del 5 maggio scorso nel fatale agguato teso dalla mafia In via dei Cipressi). Noi facciamo soltanto il nostro dovere », ha commentato un ufficiale dei carabinieri. « Ogni piccolo passo in avunti che compiamo, seppur d'un solo centimetro, per conto mio è un successo », ha sostenuto un funzionarlo della questura. Fatto sta che il procuratore generale della Repubblica dottor Antonino Barcellona è stato informato di quel che era avvenuto ieri notte soltanto ieri mattina, quando ha ricevuto nel suo studio a Palazzo di Giustizia il comandante la legione carabinieri e il questore. Il rapporto dell'Arma sulla tragica scomparsa del giornalista Mauro De Mauro non aveva avuto, alla procura della Repubblica, un seguito concreto; un successivo rapporto concordato tra carabinieri e pubblica sicurezza, e nel quale venivano indicati i nomi d'una settantina di persone presunte mafiose, a quanto pare aveva fatto « molta anticamera ». Il perché è impossibile per il momento stabilirlo, ma una ragione può esser dovuta al clima di attesa che esiste in procura della Repubblica per il prossimo arrivo del nuovo capo, il dottor Giovanni Pizzlllo, sostituto dell'ucciso Scaglione. Inoltre, lo stesso attuale procuratore generale è stato nominato primo presidente della corte d'appello ed è in fase di smobilitazione; sarà sostituito da un magistrato palermitano, il dottor Ignazio Fazio. In ogni caso, gli inquirenti hanno pensato di far scattare senza indugi il rastrellamento. Troppe indagini sono andate a rilento, numerosi autori di delitti sono tuttora impuniti e, soprattutto, cresce la pericolosità della nuova mafia. Ora cosa accadrà? L'accusa di associazione per delinquere è la più generica che esista in materia di mafia ed evidentemente, visto che altre non ne sono state elevate, è l'unica che gli inquirenti hanno potuto escogitare.
La Stampa 16 luglio 1971