Bandito colpito all'uscita del carcere di Fossano: Rispettata la legge
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STORIA Bandito colpito all'uscita del carcere di Fossano: Rispettata la legge 25/07/1973 

Questa volta, le leggi hanno aiutato gli uomini di buona volontà. Il detenuto di Fossano, deciso ad evadere arma in pugno ed ostaggi al fianco, avrebbe potuto essere legittimamente colpito in qualsiasi momento della sua folle avventura.

Il vero problema non era giuridico, ma pratico: si trattava di attendere il momento più adatto per stroncare il tentativo di evasione senza creare altre vittime fra il personale di custodia. Facendo uso di molta pazienza, e di altrettanta lungimiranza, il problema è stato risolto felicemente, puntando il tutto per il tutto sull'attimo in cui il pregiudicato sarebbe uscito nel cortile del carcere per impossessarsi della vettura chiesta ed ottenuta al preciso scopo di realizzare la progettata fuga.

Nel suo piano spavaldo e crudele, in parte modellato sull'esempio delle più efferate rapine (come quella, tragicissima, di Vicenza) o di certi dirottamenti aerei (come quello, sanguinosissimo, attuato subito dopo il sequestro degli atleti israeliani in Monaco di Baviera), Horst Fantazzini si era forse illuso di poter contare su quella specie di immunità di cui spesso fruiscono quanti si allontanano recando seco uno o più ostaggi: ciò anche a causa degli incerti confini che caratterizzano la legittima difesa o lo stato di necessità, istituti normalmente non applicabili nei confronti di chi colpisca in maniera letale una persona che fugge.

Fantazzini evidentemente ignorava che le leggi vigenti in materia di evasione sono severissime, non tanto per le pene comminate a carico di chi se ne rende responsabile, ma piuttosto per i poteri conferiti alle forze di polizia nell'intento di prevenire o comunque reprimere gli episodi del genere. Già il codice penale configura un'apposita causa di giustificazione, denominata uso legittimo delle armi, la quale dichiara non punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, faccia uso ovvero ordini di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi sia costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all'Autorità. Questa norma avrebbe giustificato un eventuale ricorso all'uso delle armi durante tutto il periodo in cui Fantazzini era rimasto asserragliato nei locali della direzione del carcere.

Per meglio garantire la sicurezza di chi si trovava con lui, si è preferito far leva su due disposizioni, rispettivamente contenute nel regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena (anno 1931) e nel regolamento per il corpo degli agenti di custodia (anno 1937) la prima autorizza i militari e gli agenti addetti alla sorveglianza esterna degli stabilimenti di detenzione ad usare le armi « quando vi siano costretti dalla necessità di impedire l'evasione »; la seconda conferisce analoga potestà alle guardie carcerarie, sempreché, come ha precisato la Corte di cassazione, vi sia flagranza, e non soltanto sospetto, di evasione. Nessuno vorrà negare che nell'episodio di Fossano, considerato all'atto del suo epilogo, tutte le condizioni richieste fossero rigorosamente presenti.

Persino la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, nel tutelare il bene della vita, eccettua espressamente l'ipotesi in cui si debba impedire l'evasione di una persona regolarmente detenuta In altre parole, la morte causata per il raggiungimento di tale risultato non costituisce omicidio.

Qualcuno non ha mancato di obiettare che una regolamentazione così drastica (l'uccisione di chi tenta di evadere sarebbe « sempre e comunque » lecita) peccherebbe per eccesso, non ravvisandosi « sempre e comunque » quella proporzione tra i due beni in conflitto che sola può rendere accettabile il sacrificio del bene della vita. Basti pensare all'evasione di un detenuto non pericoloso, in quanto colpevole di un reato non grave, e mosso dall'intenzione di visitare un parente ammalato o di incontrare una persona amata. Anche a condividere, come ci sembrerebbe giusto, un orientamento di questo tipo, la valutazione del caso Fantazzini non muterebbe. Ci troviamo di fronte a un tentativo che ha raggiunto vertici estremi di pericolosità sia per i precedenti veramente gravi dell'individuo che se ne è reso protagonista, sia per i modi brutali, anzi feroci, con cui egli ha agito sin dall'inizio, non esitando a sparare colpire ripetutamente, con completo disprezzo per la vita altrui. Dopo tali prove di violenza omicida, la previsione che, una volta lasciato il carcere, Fantazzini avrebbe continuato a sparare e colpire era una previsione più che fondata, all'insegna dell'assoluta probabilità. Si può, quindi, concludere che non soltanto di uso legittimo delle armi s'è trattato, ma anche di vero e proprio stato di necessità.

Un'altra considerazione su cui è opportuno insistere riguarda l'aspetto socio-psicologico dell'episodio. Questo non ha avuto nulla a che vedere con quelle forme di contestazione e talora di ribellione di cui le cronache dal carcere danno frequente notizia. Lo dimostra soprattutto il carattere esclusivamente personale (anche se aiutato dall'esterno) dell'iniziativa di Fantazzini, preoccupato di un'unica cosa: uscir fuori, lui e solo lui, a qualsiasi costo. Prova ne sia che gli altri detenuti in nessun momento hanno mostrato la benché minima solidarietà nei suoi confronti. Alcuni, anzi, hanno fattivamente cooperato a condurre in salvo, lontano dalla direzione occupata, uno degli agenti feriti.

Resta da chiedersi se tra i motivi che hanno spinto Fantazzini a una così dissennata operazione non fosse annidata una componente più o meno intensa di follia. In ogni caso hanno svolto un ruolo decisivo, da un lato, la consuetudine con il delitto e, dall'altro, l'influsso nefasto dei recenti, clamorosi capitoli di maggior criminalità in Italia e nel mondo. A turbare vieppiù gli animi si colloca, alla base dell'intera vicenda, la disponibilità di una pistola calibro 6,35 da parte di una persona detenuta. Senza quell'arma, verosimilmente nulla sarebbe successo, o per lo meno nulla di così grave.

Ancora una volta, tocchiamo col dito quella che rappresenta l'autentica chiave di volta della stragrande maggioranza dei più gravi reati: la diffusione delle armi in ogni dove. Nonostante una vigilanza che dovrebbe essere estremamente meticolosa, armi efficienti e fornite di munizioni riescono ormai a entrare abusivamente anche in un carcere piccolo e solitamente tranquillo come quello di Fossano. Non deve più succedere. Dagli aeroporti alle carceri il fronte di difesa contro il dilagare di questi strumenti di morte va decisamente rafforzato, sino a risalire alle origini del male.

Giovanni Conso - La Stampa 25 luglio 1973


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