Il capo presunto delle “Brigate rosse”, Renato Curcio, è fuggito questo pomeriggio dal carcere di Casale Monferrato dove era detenuto da circa tre mesi. Un “nucleo armato delle Brigate rosse” ha dato l'assalto al vecchio stabile di via Leardi, angolo viale Piave: lo componevano tre uomini e una donna, forse la moglie di Curcio, Margherita Cagol. Mitra spianato, i brigatisti sono penetrati nell'interno, il “capo” era in un corridoio, come in attesa. “Renato, vieni qua” ha detto la giovane; “Eccomi”, ha risposto Curcio. Poi se ne sono andati. L'azione è stata rapida, efficace, studiata in ogni dettaglio. Per oltre due anni Renato Curcio era stato l'inafferrabile guerrigliero braccato in tutta Italia. Protagonista, secondo gli inquirenti, delle azioni più clamorose dell'organizzazione clandestina. Sulle sue spalle erano via via caduti ordini e mandati di cattura per rapine in provincia di Reggio Emilia, poi per i sequestri Amerio e Sossi.
Le lontane origini politiche; di Curcio sono “nere”, ma da anni in lui si era registrato un cambiamento radicale che, secondo i brigatisti, è schietto. Curcio aveva scelto la clandestinità dopo il fastoso matrimonio in una abbazia in provincia di Trento, ultima concessione alla ”educazione borghese”. Durante la lunga detenzione di Mario Sossi, i carabinieri raccolsero la sfida alle istituzioni lanciata dalle “Brigate rosse”: “Colpire il cuore dello Stato”. Attorno ai brigatisti cominciò ad essere tessuta una fitta tela di ragno, per la prima volta un “agente provocatore”, fra' Silvano Girotto, ex guerrigliero in America Latina, si inserì nel gruppo. Ebbe tre contatti con Curcio che definì il “grassottelle” e al termine dell'ultimo incontro, la mattina di domenica 8 settembre, nella tela del ragno finirono il capo presunto delle “Brigate” con il suo compagno e braccio destro, Alberto Franceschini. Le “Br” reagirono all'arresto con uno stizzoso comunicato nel quale denunciavano l'azione di Silvano Girotto: “I compagni Renato Curcio e Alberto Franceschini sono caduti nelle mani del Sid”, dissero nel loro volantino. Per Franceschini venne scelto il carcere di Cuneo, dal quale sembra abbia tentato di fuggire circa due mesi orsono. Curcio finì a Novara, dove fu sottoposto ai primi interrogatori dal giudice istruttore Giancarlo Caselli che conduce l'inchiesta sulle imprese dei brigatisti, dal sequestro Labate in poi. “Non rispondo alle vostre domande; non riconosco la vostra autorità. Mi considero un prigioniero politico”, ha ribattuto Curcio alle domande del magistrato. Poi il trasferimento al carcere di via Leardi, a Casale, sembra per ragioni di sicurezza.
L'“Antiterrorismo”, sembra, ha avvertito, giorni orsono, la magistratura di un piano in atto per far fuggire dal carcere Curcio e Paolo Maurizio Ferrari, detenuto a Genova. La magistratura aveva ordinato per Curcio sorveglianza a vista. La piccola prigione, comunque, sembrava offrire maggiori garanzie di sicurezza che non il moderno carcere di Novara: non ci sono mai molti detenuti, non è considerato difficile tenerli d'occhio anche se si tratta di un “carcere aperto”, cioè i reclusi hanno la possibilità di muoversi all'interno in assoluta libertà. Oggi nello stabilimento c'erano 45 detenuti e prestavano servizio 17 delle 19 guardie di custodia.
Ore 16,13: due auto, una “124” giallina e un'altra blu, forse una “128” o una vettura straniera, si fermano nei pressi del carcere. Scendono una donna sui trent'anni, carina, bionda, volto affilato, statura media, e un uomo, volto anonimo, baffi folti. La giovane suona. La feritoia viene aperta e al piantone, Pompeo Carelli, mostra un fagotto. E' giorno di visita, tutto sembra normale. “Devo consegnare questo pacco ad un detenuto. Mi apra”. Sorride, è tranquilla. La guardia chiude lo spioncino, apre il portone. Però nel momento in cui la feritoia viene sbarrata, la donna estrae da sotto il cappotto un mitra dal calcio mozzo. La guardia si trova la canna dell'arma puntata allo stomaco: “Stai buono o sei un uomo morto”. Nello stesso istante alle sue spalle arrivano tre uomini. Due indossano tute blu e portano una scala “all'italiana” di alluminio. Montano i due elementi della scala, poi li appoggiano al muro di cinta, all'interno a sinistra del portone; salgono, e ad un'altezza di circa tre metri tranciano i fili del telefono. Intanto la giovane e il compagno costringono l'agente a chiamare il maresciallo Barbato, che si trova oltre il secondo cancello, proprio nel cuore del carcere. Si muovono nervosamente, ma appaiono decisi, attenti. Al sottufficiale intimano di aprire e per persuaderlo battono la canna del mitra contro la schiena dell'ostaggio.
Aperta la strada, si trovano direttamente nel corridoio lungo il quale si affacciano alcune celle del piano terreno. “Non muovetevi o facciamo una strage”, minacciano facendo mettere faccia al muro il piantone, il maresciallo, gli appuntati Baricelli e Rossi. “Dov'è Renato?”, chiede la donna; e subito dopo grida: “Renato, vieni fuori!”. Dal fondo del corridoio una voce le risponde: “Eccomi, sono qui”. Un ultimo dialogo: “Sei il direttore?”, chiedono i brigatisti rivolti al maresciallo. “No, sono il comandante”. “Bene, state buoni e non muovetevi”. Se ne vanno.
Il pacco rimane nel carcere, si j attende un artificiere per aprirlo, e si scoprirà poi che i conteneva della cartaccia. Scatta l'allarme. Posti di blocco vengono istituiti: una cintura di uomini armati è stesa attorno alla città. Una “124” rubata ad Alessandria viene trovata, poco dopo, alla periferia, in via Buozzi. Potrebbe essere una delle auto usate dal “Nucleo armato”, Al carcere accorrono il questore di Alessandria, dottor De Stasio, il comandante del Gruppo carabinieri, colonnello Musti, il capo del Nucleo antiterrorismo per il Piemonte, dottor Giorgio Criscuolo, il capitano Seno, del Nucleo speciale dei carabinieri.
Il telefono squilla alle 16,50 nella stanza numero 11, al quarto piano dell'Ufficio istruzione di Torino. Al dottor Caselli un ufficiale dei carabinieri del Nucleo speciale comunica: “E' fuggito Curcio, c'è stato un assalto al carcere di Casale Monferrato”. Il magistrato accoglie con calma la notizia. Dice soltanto: “Abbiamo lavorato tanto, dovremo ricominciare”.
La Stampa 19 febbraio 1975