Aspettando in carcere
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STORIA Aspettando in carcere 17/07/1973 

Gli increduli (e sono ancora tanti) dovranno pur arrendersi all'evidenza: le carceri italiane stanno trasformandosi sempre più in luoghi di disperato e disumanizzante abbrutimento. Le cronache narrano di colpevoli che ne escono più tarati di prima e d'innocenti che se ne tornano a casa carichi di rabbia per le umiliazioni ingiustamente patite. Aumentano, al tempo stesso, i casi di chi vi muore per mancanza di cure o, addirittura, per attentato alla propria vita.

Di fronte agli avvenimenti dell'ultima settimana c'è di che restare sgomenti. Tre detenuti in attesa di giudizio si sono impiccati nel giro di pochissimi giorni: il primo giovedì alle Nuove, il secondo venerdì a Regina Coeli. il terzo domenica a San Vittore. Soltanto per uno di questi tre casi, quello di Torino, il carcere non ha colpe dirette: il contadino settantenne, che aveva appena ucciso la moglie sotto la spinta morbosa di un'assurda gelosia, non è stato in grado di resistere al tormento per un gesto che sa di autentica follia. Resta da domandarsi se non si sarebbe potuto curare prima del delitto uno stato di così allucinante anomalia. Ben diversi, ma tra loro simili, i casi di Roma e di Milano. Protagonisti due uomini ancor giovani, l'uno anzi giovanissimo. Entrambi sotto processo per addebiti di relativa gravità: guida senza patente e porto abusivo d'armi da un lato; furto aggravato e porto abusivo d'armi dall'altro. Parlare di rimorso, di vergogna, di autopunizione in ipotesi del genere sarebbe veramente fuori di posto, se non altro per l'assoluta sproporzione che caratterizzerebbe i rapporti tra causa ed effetto.

Quali, allora, le ragioni di questa duplice tragedia umana? La drammaticità del quesito ha immediatamente consigliato l'avvio di inchieste, nell'intento di ritrovare spiegazioni specifiche o retroscena non sospettabili. Una cosa è certa: qualunque scoperta dovesse emergere dalle suddette indagini, resterebbe determinante il peso negativo esercitato sull'animo dei due detenuti dall'atmosfera ossessiva della vita carceraria e dall'estenuante attesa delle decisioni dei giudici. Non è una mera coincidenza che questi tragici espisodi abbiano stroncato persone non ancora condannate.

Sono proprio gli imputati in stato di custodia preventiva a sentire il peso di tutti i mali che avvelenano la nostra giustizia: durata interminabile delle procedure, aleatorietà e sproporzione delle pene, regime carcerario spaventosamente arretrato. Come se non bastasse, una parte notevole dei detenuti in attesa di giudizio finirà con l'essere assolta, magari con formula piena.

Le statistiche parlano chiaro: la percentuale dei proscioglimenti si aggira attorno al cinquanta per cento degli imputati in carcere. Questi, a loro volta, costituiscono la metà dei reclusi. Come si vede, troppe volte l'attesa è in completa perdita, senza neppure la possibilità di un risarcimento o di una riparazione.

Martedì scorso, in questa sua rubrica, Carlo Casalegno insisteva molto opportunamente sulla necessità di « non dimenticare » i carcerati e di includere tra i problemi di maggior urgenza la riforma dei codici penali, la riorganizzazione dell'amministrazione giudiziaria e la revisione integrale dei servizi penitenziari. I fatti degli ultimi giorni, ivi compresi gli scioperi della fame ed altre forme di prolesta, hanno dimostrato una volta di più quanto sia giusto un simile auspicio.

Non sono solamente i dettati costituzionali, imperniati sulla funzione rieducativa della pena, e il rispetto dei diritti umani più elementari (salute fisica, equilibrio psichico, lavoro, istruzione) ad esigere un radicale rinnovamento di meccanismi e di strutture decisamente controproducenti. Sono gli stessi interessi della società, in lotta contro il delitto, che hanno assoluto bisogno di veder rimosse o per lo meno contenute le maggiori spinte criminogene. La lentezza dei processi, l'ingiustizia delle pene e le carceri « scuola di delitto » favoriscono il vero delinquente, incattiviscono il piccolo contravventore facilmente recuperabile e suggeriscono nuove iniziative criminali.

Ancora e sempre, ia repressione fine a se stessa produce risultati esattamente opposti a quella riabilitazione, che sola gioverebbe all'individuo e alla collettività. Fortunatamente, nel panorama nero di una settimana che ha pure visto ulteriori incrementi di rapine e di estorsioni, si è innestata una nota positiva, del tutto senza precedenti, e quindi di buon augurio.

Sabato il nuovo Guardasigilli si è recato a Regina Coeli per vedere e sentire di persona. I due colloqui avuti da Mario Zagari dapprima con una delegazione di quindici detenuti in attesa di giudizio e poi con tutti i reclusi riuniti nella rotonda del carcere potranno rappresentare un'autentica svolta, se alle parole seguiranno le realizzazioni. Il giorno prima lo stesso ministro aveva disposto un'indagine conoscitiva sugli istituti di pena.

E anche il Consiglio Superiore della Magistratura ha fatto sentire la sua voce: riforme organiche dei codici, riordinamento giudiziario, edilizia carceraria, funzionamento degli uffici. Tutto bene, ma ad una condizione: le promesse non bastano più, i comunicati solenni nemmeno. In carcere si muore.

Giovanni Conso - La Stampa 17 luglio 1973


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