E' morto come un picciotto qualsiasi, accoltellato in carcere, il potente capomafia palermitano Angelo La Barbera. Doveva scontare un anno e mezzo appena dei 22 inflittigli dai giudici in primo grado, pena ridotta in appello a 10 anni e sei mesi, ma, ancora una volta, più rapida è stata la mano dell'“organizzazione”. Non si può certo dubitare che l'ordine di assassinarlo sia partito, magari di lontano, dai suoi acerrimi, eterni rivali, i due sanguinari cugini ed omonimi. Salvatore Greco, latitanti da 12 anni e Luciano Liggio, in prigione com'era lui. Un'altra vendetta.
E di vendette e ritorsioni, odi e patti da vincolo di sangue è sempre stata improntata alla più spietata violenza la carriera di Angelo La Barbera, elegantissimo, gran bevitore, amatore di belle donne, ma soprattutto al centro d'interessi per decine di miliardi alimentati dal traffico di stupefacenti e tra gli Anni Cinquanta o Sessanta, nel centro di Palermo, dalla scandalosa esplosione edilizia con la connivenza di numerosi amministratori e politici locali.
Condannato a 22 anni al “processone” celebrato per legittima suspicione a Catanzaro (121 imputati), non fu “incastrato” per nessuno dei 7 omicidi a lui attribuiti direttamente, ma soltanto per associazione per delinquere ed alcuni fatti minori. Dopo vari periodi di soggiorno obbligato - fu anche a Rivoli, nell'inverno del 1971 - il 17 maggio 1971 venne inviato nell'isoletta di Linosa, uno scoglio a sud del Canale di Sicilia. Dodici giorni prima, a Palermo, era stato massacrato Pietro Scaglione, il procuratore capo della Repubblica, e la retata di mafiosi fu un'iniziativa per scoraggiare nuovi delitti. Sul piccolo piroscafo “Carpaccio”, che lo portava nell'isoletta, pagando con banconote di grosso taglio. La Barbera, attorniato dai carabinieri, offriva whisky di marca col suo sorriso sprezzante e di tanto in tanto s'aggiustava sul naso, gli occhiali filettati d'oro. “Angelo, anche Napoleone andò all'isola”, gli sussurrò uno dei suoi devoti che ebbe un'occhiata da incenerirlo. Detestava gli scodinzolamenti: a lui, “gangster” in doppiopetto, importavano soltanto i fatti. Lo confidò anche a Gina Lollobriglda, andata poi a Linosa per fotografarlo nel suo librone sui personaggi celebri. La sua gentilezza, il parlar sottovoce, i modi lenti e calmi, colpirono la Lollobriglda. “Che bell'uomo, ma che sguardo!”, commentò in seguito la diva.
Partendo da semplice camionista, col fratello maggiore Salvatore, Angelo dimenticò presto le angustie della povertà ma incontrò ostacoli. Anche per avere il passaporto c'era bisogno di traffici e raccomandazioni. Nell'inverno del '59 se ne occupò un deputato liberale regionale, l'avv Alfonso Benedetto, che intercedette sull'allora questore di Palermo, Jacovacci. La richiesta fu respinta il 23 novembre dal commissario che dirigeva il competente ufficio della questura che però, mistero, il 18 dicembre cambiò parere e concesse il passaporto ad Angelo, negandolo a Salvatore La Barbera.
Gli avvenimenti precipitarono tra il 1962 e il 1963. Il più duro del gruppo. Salvatore La Barbera, il mattino del 17 gennaio '63 usci di casa dopo aver salutato la moglie e spari. Ucciso e gettato chissà dove: la stessa fine del giornalista Mauro De Mauro e di tanti altri. Più d'un “picciotto” della mafia ha raccontato che Salvatore La Barbera venne murato nella gettata di cemento di un edificio in costruzione. Angelo, che viveva della luce riflessa del fratello, partì alla controffensiva: la ondata di violenza scatenata da lui con 12 omicidi in neppure un anno, portò alla sparatoria in viale Regina Giovanna a Milano, il 24 maggio '63, dove, ferito con undici proiettili, il boss scampò per miracolo alla morte. Era la risposta all'auto che lui aveva fatto imbottire di tritolo e dinamite a Cinisi, vicino a Palermo il 26 aprile. L'esplosione ridusse a brandelli il capomafia Cesare Manzella e Filippo Vitale, un “impiegato” di costui.
Ma precedenti ce n'erano stati altri: la sparizione nel nulla dei fratelli Pietro e Salvatore Prester (febbraio 1961) e l'uccisione di Calcedonio Di Pisa (26 dicembre 1962), che frantumò gli equilibri sui quali poggiava i] traffico della droga. Nel febbraio del '62 in Egitto era stato deciso l'acquisto d'una grossa partita d'eroina destinata agli Stati Uniti. La portò a Brooklyn un cameriere siciliano del transatlantico “Saturnia”, che la consegnò a un nipote di Joe Profaci, uno dei boss dei boss di “Cosa nostra”. Ma i cugini d'America pagarono meno del pattuito: inferiore a quanto concordato era stato il carico di droga risposero, quindi meno dollari. Chi aveva frodato l'organizzazione mafiosa? Cesare Manzella, amico dei Greco e di Luciano Liggio, decretò un tribunale mafioso presieduto da Salvatore La Barbera e che quindi ordinò anche l'uccisione di Calcedonio Di Pisa. Sfuggito all'agguato di Milano, Angelo non tardò a vendicarsi: il 30 giugno 1963, in un agrumeto della borgata palermitana Ciaculli di proprietà dei Greco, fece saltare in aria una Giulietta imbottita di tritolo: 7 tra carabinieri, agenti e artificieri d'artiglieria, agli ordini del tenente Malausa, che cercavano di disinnescare l'ordigno, furono fatti a pezzi. Greco e Liggio fuggirono. Espatriò anche Tommaso Buscetta (ora sotto processo a Sorrento, sempre per droga), ma La Barbera, Pietro Torretta e Rosario Mancino, i nemici del clan Greco-Liggio furono catturati poco dopo mentre, costituita la commissione parlamentare antimafia, il Paese cercava d'organizzarsi contro la ferocia dei mafiosi.
Ora a 51 anni, Angelo La Barbera non pensava certo di morire in carcere con una coltellata al cuore. La pena ridotta e gli anni già scontati, gli facevano pensare di essere prossimo alla liberazione.
La Stampa 29 ottobre 1975