E' crollato a terra fuori della prigione, vicino alla sorella (arrestata) che lo stava aspettando - Si chiamava Bruno Soci, 25 anni, abitava a Torino - In carcere per furti e rapine era già fuggito una volta da Mantova.
Tragica evasione stamane dalla casa penale di piazza Don Soria ad Alessandria, la stessa della sanguinosa rivolta del 9-10 maggio scorso. Un giovane detenuto che aveva già raggiunto la sommità del muro di cinta, è stato raggiunto da alcuni colpi di mitra esplosi da due agenti di custodia. E' morto due ore dopo all'ospedale per ferite al torace e all'anca destra con conseguente emorragia interna e collasso cardiocircolatorio. Si chiamava Bruno Soci e aveva 25 anni; abitava a Torino in via Nichelino 14. Dopo un'evasione dal carcere di Mantova, era stato arrestato a Torino il 23 marzo dello scorso anno. In attesa di giudizio per una lunga serie di reati — furti, rapine (anche in Svizzera), evasione — era stato trasferito alla casa penale di Alessandria nel luglio scorso; proveniva dalle «Nuo. ve», dove si era messo in luce per la sua irrequietezza. Fuori dal reclusorio l'attendeva, a bordo di una «124» sport, la sorella Marisa, 30 anni, sposata ma separata, abitante a Nichelino in via Don Minzoni. I carabinieri l'hanno arrestata per procurata evasione e oltraggio a pubblico ufficiale (ha urlato «assassini» agli agenti che avevano sparato al fratello); risulta anche priva della patente di guida che le era stata ritirata. Gli inquirenti ritengono che la donna fosse a conoscenza dell'evasione del fratello e lo attendesse per aiutarlo nella fuga. Lei però, interrogata dal sostituto procuratore dottor Parola, nega ogni cosa. «Ero vernila sotto le muro, del carcere — ha detto durante l'interrogatorio, assistita dall'avvocato Boccassi —, per vedere mio fratello come ero solita fare. Dovevo recarmi a Mantova dall'avvocato di Bruno; strada facendo ho pensato di fermarmi per dargli un salutino. Non sapevo nulla della sua intenzione». La versione dei fatti non viene creduta; è opinione degli inquirenti che l'evasione fosse stata ben organizzata, che Marisa Soci ne fosse perfettamente a conoscenza. Non si esclude che con lei si trovasse un altro complice. Un uomo che qualcuno avrebbe visto fuggire e che ora viene ricercato. Cerchiamo di ricostruire i fatti, in base alle notizie anche contraddittorie che siamo riusciti a raccogliere. Tutto è iniziato verso le 10 di stamane. All'interno della casa penale sono in corso lavori per sistemare sulla sommità del muro di cinta dei camminamenti in cemento per gli agenti di custodia. Per questo nel tratto di muraglione che costeggia via 1821 è stata abbattuta in questi giorni la vecchia ringhiera in ferro; inoltre dall'interno una lunga scala è appoggiata al muro. Un particolare che il Soci doveva ben sapere e che deve avergli fatto pensare al piano di evasione. Sembra — non è possibile trovare conferma ufficiale alla circostanza — che pochi minuti prima delle dieci due detenuti abbiano provocato una certa confusione, simulando un litigio. Se la cosa risulterà provata, è da pensare che i due fossero d'accordo con il Soci per creare un diversivo al fine di distrarre gli agenti di custodia. E' certo che alla stessa ora Bruno Soci è uscito di corsa nel cortile, ha saltato, arrampicandosi agilmente, il primo muro di cinta, quello interno, alto non più di tre metri; quindi, attraversato il camminamento, ha raggiunto la scala appoggiata al muraglione esterno, cominciando a salire. Quando già il suo tentativo di evasione era a buon punto, il giovane detenuto è stato notato da due agenti di servizio nelle garitte a cavallo del punto dove la scala era appoggiata. Giuseppe Gigante, 25 anni, ha intimato l'alt, poi ha sparato un colpo in aria; tutto inutilmente allora ha fatto partire una raffica di mitra (otto colpi); nello stesso momento un suo collega, il ventiduenne Pasquale Vitale, ha sparato sei colpi. Bruno Soci era ormai sulla sommità del muro di cinta; benché ferito, è ugualmente saltato — dall'altezza di oltre 5 metri — in via 1821, rimanendo però a terra e invocando gli agenti di non più sparare. Nello stesso momento transitava una «Giulia» della polizia stradale con l'appuntato Guglielmini e la guardia Coscia; i due, resisi conto che era in atto un tentativo di evasione, hanno bloccato il detenuto, subito trasportato al più vicino ospedale. Ad una decina di metri dal punto in cui Bruno Soci è caduto, era la «124» con la sorella Marisa. La donna visto il fratello colpito ha cominciato ad imprecare contro gli agenti urlando ripetutamente: «Assassini, siete degli assassini ». Gli appuntati dei carabinieri Gambarini e Fazio, in servizio nella zona, sono accorsi richiamati dalle raffiche di mitra. Hanno notato la donna inveire e l'hanno bloccata, accompagnandola all'interno della casa penale. Accertato che era la sorella dell'evaso si è immediatamente pensato che l'attendesse per aiutarlo nella fuga. E' stata dichiarata in arresto, dopo l'interrogatorio da parte del dottor Parola, è finita nel carcere giudiziario di via Parma. Mentre il sostituto procuratore Parola, coadiuvato dal tenente colonnello Musti e dai carabinieri del nucleo investigativo, dava il via all'inchiesta, all'ospedale si cercava di salvare il detenuto ferito. Il giovane però due ore dopo il ricovero cessava di vivere, mente il professor Tomassini stava accingendosi ad un intervento chirurgico. I genitori dell'ucciso hanno deciso di costituirsi parte civile contro l'agente che ha sparato. La sparatoria aveva in pochi minuti radunato una folla dinanzi al vecchio penitenziario. «C'è stata di nuovo la rivolta — si è sentito gridare — ci sono morti e feriti». Poi la verità. Intanto all'interno, diffusasi la notizia che il Soci era stato ferito dalle raffiche degli agenti di custodia, molti dei 200 detenuti davano il via ad una violenta manifestazione di protesta; a quanto si sa sono stati spaccati vetri e suppellettili. Nel pomeriggio la calma è ritornata, comunque la situazione rimane molto tesa. E' d'altra parte una tensione che si trascina ormai da quattro mesi, dai giorni terribili — il 9 ed il 10 maggio — della rivolta di Cesare Concu, Domenico Di Bona ed Everardo Levrero, una rivolta finita in un bagno di sangue: uccisi cinque ostaggi (il medico Gandolfi, l'assistente sociale Giarola, il professor Campi, il brigadiere Cantiello e l'appuntato Gaeta), morti nello scontro con le forze dell'ordine Concu e Di Bona. Il dottor Bausone, che aveva spontaneamente sostituito il collega Gandolfi, si è dimesso per «l'indifferenza, oserei dire l'ignavia, della direzione generale, nei confronti miei e del mio lavoro» (ora medico è un dentista di 75 anni); gli agenti di custodia si lamentano per la mancata revisione dell'organico e per non avere ottenuto le misure idonee ad infondere sicurezza a uomini che circolano disarmati ed in numero inferiore al necessario; i detenuti, tra i quali non mancano molte «teste calde» danno continui segni di insofferenza, come hanno dimostrato con la manifestazione di protesta inscenata quest'oggi. Tutto questo mentre si ha l'impressione che «chi di dovere» ignori la drammaticità e l'urgenza dei problemi.
La Stampa 5 settembre 1974