L’ergastolano e l’agente penitenziario, di fronte ma a ruoli invertiti rispetto a quelli solitamente immaginabili: il detenuto — Renato Vallanzasca — nella veste infatti di «persona offesa» dal reato di «falso in atto pubblico» commesso in ipotesi d’accusa dall’agente penitenziario. È la singolare situazione che risulta dal decreto di rinvio a giudizio con il quale un assistente capo della Polizia Penitenziaria, in servizio all’epoca dei fatti nel carcere di Bollate, è stato mandato a processo dalla giudice dell’udienza preliminare Alessandra Del Corvo, su richiesta del sostituto procuratore Letizia Mocciaro, per aver redatto un falso rapporto di servizio contro il detenuto la cui eco è sempre rimasta avvinta alla «leggenda nera» di ex re della malavita milanese degli anni Settanta e Ottanta.
Renato Vallanzasca oggi è un uomo canuto, con gli occhiali da miope e con i malanni fisiologici di chi ha passato in carcere quaranta dei suoi 68 anni, avendo man mano accumulato sentenze di condanna a quattro ergastoli e pene temporanee pari complessivamente a 296 anni di reclusione per un catalogo di reati che vanno dalla rapina all’omicidio, dall’evasione (di cui fu un collezionista, tra fughe riuscite o tentativi sventati) al sequestro di persona.
Stando a quanto è stato discusso in udienza preliminare, il 25 agosto 2017, durante un controllo di routine nella cosiddetta «area verde» della casa di reclusione di Bollate, l’assistente capo della Polizia Penitenziaria attestò in una relazione di servizio che Vallanzasca lo avesse aggredito «verbalmente e con lancio di oggetti», e che il detenuto, alla richiesta di far controllare una borsa, l’avesse scagliata contro l’agente, apostrofandolo «tieni, pezzo di merda!».
Può sembrare un diverbio di poco conto, ma non è così nel microuniverso carcerario, dove episodi anche di questo genere possono generare appunto rapporti di servizio che determinano conseguenze negative ad esempio in chi (come Vallanzasca) ha in corso domande di benefici penitenziari: sei mesi fa, quando il Tribunale di Sorveglianza di Milano aveva respinto (nonostante il parere favorevole della direzione del carcere) le sue richieste di liberazione condizionale e di semilibertà, tra i motivi del rigetto aveva ad esempio riesumato il controverso episodio della «rapina impropria» di articoli intimi di vestiario in un supermarket imputata all’ex «re della Comasina» nel 2014, e costatagli (più ancora che l’arresto e la condanna a 10 mesi) soprattutto la revoca della semilibertà che aveva ottenuto qualche anno prima.
Vallanzasca si disse vittima di una macchinazione, ma non fu creduto. Nel caso del rapporto di Bollate, invece, a testimoniare a suo favore, e cioè a confermare (come diceva lui) che l’aggressione descritta dall’agente penitenziario non si fosse mai verificata quel giorno a Bollate, sono stati proprio altri due agenti penitenziari, che hanno smentito il collega. Il quale ha controbattuto che i due ce l’avessero con lui perché in passato egli aveva originato a loro carico delle contestazioni disciplinari, ma la giudice lo ha ugualmente rinviato a giudizio, in un processo che verrà celebrato a gennaio davanti alla prima sezione penale del Tribunale.
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